Tributi e risorse naturali sono le principali fonti di ricchezza. E più lo Stato islamico arretra in Siria e Iraq, più scarseggiano. Così tra il 2014 e il 2016 il fatturato è crollato: da 1,9 miliardi a 870 milioni di dollari.
Lo Stato Islamico ha impostato la crescita delle proprie finanze su due pilastri dell’economia moderna: riscossione dei tributi e sfruttamento delle risorse naturali. Ma dopo gli anni d’oro, oggi per l’Isis è tempo di grave crisi. Economica, perlomeno. Una ricerca condotta dell’International Centre for the Study of Radicalization and Political Violence (Icsr) di Londra fa i conti in tasca a quello che al momento è considerato «il gruppo terroristico più ricco al mondo» e ne descrive le attività che meglio di altre contribuiscono a rimpinguare le sue casse. Le stime sul fatturato sono da grande multinazionale (870 milioni di euro nel 2016) ma i dati raccolti dal centro di ricerca britannico raccontano di un (possibile) collasso economico.
Il traffico di reperti? Ininfluente
Anzitutto, la ricerca sconfessa il credo comune secondo cui il traffico di reperti archeologici e oscuri finanziamenti dall’estero siano le principali fonti di ricavo del Califfato. Due attività che di fatto hanno fino ad oggi trovato poco, se non nessun, riscontro nella realtà. La comunità internazionale ha inoltre imposto che venissero congelati i flussi di denaro provenienti dall’estero e diretti al Califfato, secondo l’assunto per cui al Qaeda avrebbe ricevuto denaro proveniente dai Paesi del Golfo e considerandolo un principio applicabile ad altri gruppi terroristici. Ma al Qaeda è estremamente diversa dall’Isis.
Il welfare del Califfato
Non esistono prove di finanziamenti provenienti dall’estero, scrivono i ricercatori inglesi, mentre i sequestri di persona e il commercio illegale di reperti archeologici contribuiscono in minima parte alle casse del Califfato. Secondo l’Icsr, l’attività più redditizia è invece la riscossione di tasse, seguita dalla vendita di petrolio e dai proventi derivati da saccheggi e confische. «Lo Stato Islamico ha un proprio capitale, ottenuto tramite lo sfruttamento dell’economia locale», dice Stefania Azzolina, responsabile del settore Medio Oriente e Africa del Centro Studi Internazionali. «Offrire servizi, come energia elettrica e prestazioni sanitarie, dà l’idea di quanto l’Isis si faccia welfare, una novità assoluta nel panorama terroristico».
L’Isis si muove come un impero in espansione. Un’avanguardia viene spedita nel territorio da occupare per conoscerne la conformazione e predisporre le strutture primarie. Queste ultime sono poi utilizzate sia in ambito militare sia per estorcere e accumulare denaro dalla popolazione. Con l’arrivo delle truppe vere e proprie comincia la riscossione di tasse, seguita dalla confisca e dalla successiva rivendita di case, terreni, veicoli e gioielli. Abitazioni, banche e negozi vengono saccheggiati, i pozzi di petrolio nelle aree circostanti occupati e militarizzati. È così in corso una vera e propria colonizzazione, che si basa sostanzialmente sullo sfruttamento di due capitali: la popolazione e le risorse naturali.
La popolazione da sfruttare
Tutte queste attività, capaci di generare un fatturato di 1,9 miliardi di dollari nel 2014, hanno però un comune denominatore: il territorio. L’Isis pone al centro del suo sistema economico l’area geografica che controlla. Al contrario di al Qaeda, dispone di una popolazione da sfruttare che lo rende meno dipendente dal circuito della finanza internazionale e da ‘benefattori’ stranieri. Vengono così a mancare due presupposti tipici su cui l’Occidentale basa il contrasto economico al terrorismo.
L’Isis ha perso il 60% del territorio in Iraq
Ma la sua forza coincide con il suo tallone d’achille. Con una progressiva riduzione del territorio sotto il proprio dominio, diminuisce anche il flusso di capitali in entrata. Secondo i dati rilasciati dalla Global Alliance lo scorso novembre, il Califfato ha perso il 62% di territorio in Iraq rispetto al 2014 e il 30% in Siria. Questa erosione ha contribuito fortemente al dimezzamento del fatturato dell’Isis che, secondo il centro di ricerca britannico, nel 2016 ha raggiunto gli 870 milioni di dollari. Il declino economico, afferma l’Icsr, «è destinato probabilmente a continuare, vista la recente riconquista di pozzi petroliferi e di importanti città da parte dell’Alleanza».
La ricerca è basata su fonti quali articoli di giornale, inchieste giornalistiche, documenti dell’Isis trafugati, testimonianze rilasciate al congresso degli Stati Uniti e relazioni governative. Sono inoltre citate altre tre ragioni dei guai economici dell’Isis: la decisione presa ad agosto 2015 dal governo iracheno di annullare gli stipendi dei dipendenti pubblici nei territori occupati; i bombardamenti dell’aviazione americana di importanti raffinerie, infrastrutture e depositi di denaro; gli sforzi profusi per ridurre il contrabbando nel confine tra Turchia e Iraq.
Ma gli attacchi costano poco
Un’animale con le spalle al muro è però ancor più pericoloso. L’Icsr infatti mette in guardia la comunità internazionale sulla capacità, già dimostrata dallo stesso Stato Islamico e da al Qaeda, di poter superare le difficoltà economiche e le sconfitte militari. «L’indebolimento economico può anche non avere effetti immediati sulla capacità del gruppo di compiere attacchi terroristici al di fuori del proprio territorio», scrivono i ricercatori inglesi. E non solo. La cronaca insegna che per un attacco terroristico non servono ingenti capitali. «Secondo le autorità francesi, non più di 20 mila dollari sono stati necessari per gli attacchi di Parigi del novembre 2015», ha dichiarato al Der Spiegel Peter Neumann, uno dei ricercatori dell’Icrs.
E la radicalizzazione continua
Minimizzare i costi e massimizzare i risultati sembra essere l’assioma portante. L’attentato di Berlino dello scorso dicembre è stato realizzato pressoché a costo zero. L’invito a non abbassare la guardia è condiviso anche da Azzolina: «Il 2017 probabilmente sarà l’anno in cui l’Isis verrà sconfitto militarmente ma questo non comporta il venir meno della radicalizzazione in Europa», spiega, suggerendo di cercare altre soluzioni «per estirpare il seme dell’ideologia su cui attacca il Califfato».
Questo articolo è stato pubblicato sul Lettera43 il 25 febbraio 2017.
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