di Lorenzo Bodrero
David (il nome è di fantasia) è un accompagnatore turistico. Arriva a Nizza la sera del 14 luglio di due anni fa insieme alla comitiva che guida, un gruppo di 46 studenti australiani tra i 17 e i 18 anni. Verso le 10 di sera decidono di aggregarsi alla folla che celebra la festa nazionale sul lungomare francese e di godersi lo spettacolo pirotecnico che sarebbe iniziato da lì a pochi minuti. Il modo migliore per inaugurare un tour che nel mese successivo li avrebbe portati in giro per l’Europa, Italia compresa.
IL PANICO SULLA PROMENADE. Un’ora più tardi il lungomare è pressoché deserto. C’è spazio solo per i soccorritori e per i tanti, troppi, corpi senza vita. David si aggira tra di loro. Lo choc per quello che ha visto e lo scampato pericolo non hanno ancora trovato posto nel suo sistema nervoso. Non ne ha il tempo. Nella sua mente c’è spazio per un solo pensiero: accertarsi che tra quei cadaveri non ci sia qualcuno dei suoi ragazzi. Si avvicina ai corpi, chi è riverso lo rigira, una rapida occhiata del viso e poi via verso il successivo. Uno a uno. Alla fine saranno 86 i morti causati dalla folle corsa di quell’autocarro.
Come si presta soccorso a chi sopravvive a un attacco terroristico? È nella mente che si annidano le ferite a lungo termine e non affrontarle può causare l’insorgere di patologie anche gravi. Nasce così la psicologia dell’emergenza, una disciplina che «si occupa delle persone coinvolte in eventi critici come i terremoti, le valanghe, le inondazioni ma anche gravi incidenti stradali, persone rapite o torturate e del dramma dei migranti», spiega Donatella Galliano. Lei è la presidente nazionale di Psicologi per i Popoli, un’associazione di psicologi dell’emergenza, tutti volontari e dislocati sull’intero territorio nazionale. Durante il terremoto in Abruzzo sono arrivati il giorno stesso, per la tragedia di Rigopiano erano assieme ai primissimi soccorritori giunti all’albergo.
DAL TERRORISMO ALLA CALAMITÀ. Un attacco in Italia è giudicato improbabile ma il nostro Paese non è a rischio zero e qualora accadesse vedrebbe l’intervento anche degli psicologi dell’emergenza. Dal punto di vista clinico è ormai assodato che i traumi causati dall’uomo provocano nei superstiti segni di sofferenza più profondi e duraturi di quelli causati da disastri naturali. È dunque evidente che oltre all’assistenza medica e logistica è necessario prestare assistenza psicologica alle vittime di eventi calamitosi.
Evitata la tragedia, David decide di caricare sul’autobus il suo gruppo di studenti la mattina successiva. A eccezione di due di loro, lievemente feriti, stanno tutti bene. La priorità è partire e lasciarsi alle spalle – anche se solo fisicamente – il lungomare di Nizza, direzione Firenze. Per l’intera durata del viaggio il silenzio è totale, rotto sporadicamente da qualche pianto e dalle parole di conforto sussurrate da David. Ad accoglierli nel capoluogo toscano c’è il dottor Niccolò Varrucciu, di Psicologi per i Popoli Toscana. Al suo arrivo la situazione appare subito drammatica, qualcuno ha ancora i vestiti sporchi di sangue altrui.
STEP 1: IL DEBRIEFING. Non sono neanche passate 24 ore dall’attentato. «Sono salito sull’autobus con cui erano arrivati a Firenze», racconta Varrucciu a Lettera43, «e mi ha impressionato il silenzio che regnava». Altrettanto significativa è la testimonianza della dottoressa Lara Pelagotti: «Entrai nella hall dell’albergo dove alloggiavano i ragazzi e mi sembrò di vedere dei fantasmi, vagavano senza meta, con gli occhi persi di chi non comprendeva cosa fosse successo a Nizza e perché». Per prima cosa gli psicologi dividono la comitiva in due gruppi. Altrettanti spazi vengono allestiti nella caffetteria dell’albergo per avviare quello che in gergo è chiamato debriefing: una seduta di gruppo in cui lo psicologo conduce e invita i presenti a ripercorrere gli eventi. Uno psicologo per 23 ragazzi, in quel frangente. Un’enormità. «Solitamente affrontiamo gruppi di sette o otto persone al massimo, mai prima avevo soccorso un gruppo tanto numeroso», ricorda Pelagotti.
LA SENSAZIONE DI PERICOLO. Il debriefing rappresenta un momento fondamentale per la psiche delle vittime. I primi minuti sono dedicati al racconto, in cui a ciascuno viene chiesto di ripercorrere i fatti vissuti. «Qualcuno si era letteralmente gettato sulla spiaggia pur di scampare al camion», racconta Varrucciu, «altri raccontavano dei corpi a terra senza vita e palesavano ancora, lì in un albergo a centinaia di chilometri di distanza, una forte sensazione di pericolo. Terminato il giro, li abbiamo rassicurati su quanto il pericolo fosse ormai passato e ripetevamo che qui, ora, erano al sicuro».
STEP 2: CONDIVIDERE LE EMOZIONI. La seconda fase è dedicata alla condivisione delle emozioni. Ancora Varrucciu: «È fondamentale riuscire a condividere quello che si è appena vissuto per evitare l’insorgere di patologie in futuro». Ma i racconti degli studenti sono continuamente interrotti. «Nel bel mezzo del racconto qualcuno si bloccava, alternavano momenti di iperattività in cui non riuscivano neanche a stare seduti sulla sedia a momenti di ipoattività in cui erano completamente dissociati», racconta Pelagotti. «Un ricordo ricorrente era rappresentato dal suono, dal rumore sordo del corpo umano colpito dal camion», prosegue il medico, «lo rivivevano continuamente». Due giorni e tre sedute più tardi, il gruppo riparte. «Quando sono ripartiti per la tappa successiva del loro tour», spiegano Varrucciu e Pelagotti, «abbiamo avuto la sensazione che fossero più attrezzati per riconoscere e affrontare le paure che avevano appena vissuto».
La psicologia dell’emergenza non è un appuntamento settimanale, non avviene nel caldo e nella quiete di uno studio e non sempre consiste in un colloquio individuale. Le parole d’ordine sono “stabilizzare” e “normalizzare” emotivamente la vittima per poi, qualora necessario, accompagnarla verso uno psicoterapeuta. Nel giro di pochi minuti i superstiti subiscono uno stravolgimento totale del proprio sistema sociale, affettivo e logistico. Saper traghettare la loro mente verso l’accettazione e l’integrazione in un nuovo contesto sociale è determinante. La familiarità di un gesto quotidiano come distribuire dell’acqua o un gesto di solidarietà come consegnare delle coperte rientrano nella miriade di attività che uno psicologo dell’emergenza si trova a ricoprire. In Francia, per esempio, esistono associazioni che si prendono cura della salute mentale dei sopravvissuti e dei loro famigliari. A volte, però, non basta. Il 18 novembre scorso, un reduce del massacro al Bataclan (in cui rimasero uccise 89 persone) si è tolto la vita. Aveva 31 anni.
LA CATENA DI COMANDO. L’episodio degli studenti australiani ha rappresentato in Italia il battesimo professionale nel trattamento di vittime di un attentato terroristico e solleva una questione cruciale per il nostro Paese, quella della gestione dei soccorsi a seguito di un attacco. Tra i primi a intervenire ci sarebbero anche loro, gli psicologi dell’emergenza. Sulla carta, il coordinamento dei soccorsi spetta alle prefetture. Ma per quanto riguarda l’assistenza psicologica ai sopravvissuti permangono dei dubbi rispetto alla modalità di intervento. «In molte tipologie di emergenza il processo di attivazione della nostra associazione e la catena di comando da seguire sul campo è chiara, come nei terremoti o nella ricerca delle persone scomparse», spiega a Lettera43 la presidente di Psicologi per i Popoli, Donatella Galliano. E continua: «Altri settori meno sperimentati necessitano di studi o organizzazioni mirate. Per quanto riguarda il terrorismo al momento si possono seguire le linee guida europee».
SERVIZIO VOLONTARIO. Il banco di prova si spera non arrivi mai. Intanto, ulteriori chiarimenti sulle modalità di intervento dovrebbero arrivare dalla proposta di legge Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista a firma Dambruoso-Manciulli. Il condizionale è d’obbligo: approvata alla Camera lo scorso luglio, se ne riparlerà dopo le elezioni. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha incontrato e premiato una delegazione di Psicologi per i Popoli dopo la tragedia di Rigopiano e l’associazione è accreditata all’interno del dipartimento nazionale della Protezione Civile. Nonostante gli importanti riconoscimenti, la quasi totalità degli psicologi dell’emergenza presta ancora servizio volontario. In molti ambiti istituzionali, quali pronto soccorso, esercito e forze di polizia, sono invece presenti già da tempo. «Ma un numero consistente di colleghi psicologi dell’emergenza presta la propria specifica professionalità nell’ambito del volontariato», spiega Galliano. Sorprende che, salvo qualche eccezione, in Italia gli psicologi dell’emergenza non siano ancora parte integrante del sistema sanitario nazionale, considerata l’importanza di intervenire sulla psiche delle vittime.
Questo articolo è stato pubblicato su Lettera43 il 14 gennaio 2018.
No comments so far.
Be first to leave comment below.