Putin ha vinto i Mondiali?
Articoli 22/07/2018 Lorenzo Bodrero 0
Il calcio ha i suoi nuovi campioni del mondo. Gli stadi, con qualche eccezione, hanno fatto il pieno di tifosi. Il torneo ha visto il declino di qualche vecchia stella e l’ascesa di nuove. Il Var ha funzionato. Gol a grappoli. Errori pacchiani e prodezze memorabili. Nazionali blasonate battute dalle matricole. Non è stato registrato nessun incidente particolarmente grave. Insomma, zdorov’ye! I Mondiali sono stati un successo su tutti i fronti.
Il principale artefice di un tale successo è una persona ben precisa: Vladimir Putin. Grazie agli sforzi dello zar, non me ne vogliano i francesi, il vero vincitore della Coppa del mondo è la Russia. Tutto è andato secondo i piani del Presidente. Ospitare i campionati del mondo offriva la straordinaria possibilità di diventare interlocutore obbligato di tutte le Nazioni partecipanti. L’occasione perfetta per mostrare a miliardi di persone quanto l’immagine di una Russia inospitale, pericolosa e dittatoriale fosse – secondo la visione presidenziale – errata.
Quale occasione migliore della più importante manifestazione sportiva per rifarsi il trucco agli occhi del mondo? E se non puoi vincerla, organizzalaLa Russia ha vinto e ne aveva un disperato bisogno. Sportivamente e politicamente. Per Putin, ospitare i campionati mondiali e le Olimpiadi invernali quattro anni fa è parte di una strategia ben precisa volta a ristabilire equilibri nel panorama geopolitico internazionale che sono andati incrinandosi sempre più. Negli ultimi anni la Russia ha fomentato il conflitto nell’Ucraina dell’est (10mila morti fino a oggi di cui un terzo civili), ha illegalmente annesso la Crimea al proprio territorio, bombardato obiettivi civili in Siria e appoggiato le nefandezze perpetrate dal regime di Bashar al-Assad, messo in piedi un sistema di doping di Stato, interferito nelle elezioni americane. Tutto ciò per quanto riguarda la politica estera. E all’interno dei propri confini non si respira aria migliore: forti limitazioni alla libertà di espressione e di stampa, brogli elettorali, repressioni verso la comunità Lgbt. Senza contare l’avvelenamento ai danni dell’ex spia russa Sergei Skripal su suolo inglese lo scorso marzo, episodio che ha convinto la premier Britannica Theresa May a boicottare i Mondiali. Quale occasione migliore della più importante manifestazione sportiva per rifarsi il trucco agli occhi del mondo? E se non puoi vincerla, organizzala.
I Mondiali sono anche serviti per placare i crescenti malumori all’interno della popolazione. Il calcio anestetizza, lo sappiamo bene. Ad ampliare l’effetto mondiale sul popolo russo ci ha poi pensato la Nazionale stessa. Neanche il più incrollabile ottimista avrebbe immaginato un approdo ai quarti di finale della squadra guidata da Stanislav Cherchesov, 65ma e ultima nella classifica Fifa. Il solo fatto di partecipare ai Mondiali – scontato, visto che da regolamento la nazione organizzatrice non ha bisogno di qualificarsi – era un successo. Ma qualcosa di più poteva essere fatto. Come superare il girone, per esempio. E, puntualmente, si è verificato. Per pura curiosità siamo andati a raccogliere i dati sul ranking Fifa registrati il giorno prima (1 dicembre 2017) del sorteggio dei gironi di Russia 2018. La Russia figurava come testa di serie poiché Paese ospitante. Alla strenua di Germania o Brasile, per intenderci.
Niente di male, è il regolamento. Abbiamo quindi fatto la media del ranking di ciascun girone, teste di serie escluse. Con Uruguay (21° nel ranking Fifa), Egitto (31°) e Arabia Saudita (63°), la Russia si trovava nel girone con una media di 38. Il più alto, che tradotto significa il girone più facile. Coincidenze, certo. Che hanno consentito alla Russia di superare il turno e affrontare la Spagna agli ottavi. Qui una difesa degna della campagna di Stalingrado e prestazioni aerobiche mai viste prima su un campo di calcio hanno portato ai calci di rigore. Spagna battuta e Paese in visibilio, con Putin a strofinarsi le mani davanti al televisore. I sospetti di doping emersi all’indomani del match sono certamente, anche qui, opera di mal pensanti.
Del doping però la Russia ne aveva fatto un sistema. Quello svelato da uno dei principali artefici: Grigory Rodchenkov, ex direttore dell’agenzia antidoping russa. Aveva elaborato un complicato sistema in grado di eludere i controlli e che ha interessato oltre mille atleti di 30 discipline sportive calcio incluso tra il 2011 e il 2014, secondo l’Agenzia mondiale antidoping (Wada). Lo stratagemma, scoperchiato in primis dal canale televisivo tedesco Ard, è stato poi confermato dallo stesso Rodchenkov il quale, indicato come unico responsabile dalle autorità russe all’indomani delle Olimpiadi di Sochi, ha trovato rifugio negli Stati Uniti. Da tre anni vive sotto protezione e da allora ha fornito ulteriori dettagli sul doping di Stato della madrepatria. Come quello che indicava in Vitaly Mutko, allora ministro dello sport, quale referente per le istituzioni.
Alle stesse conclusioni era giunta la Wada a novembre 2016 con la pubblicazione dei risultati di un’inchiesta indipendente. E la Fifa? In quelle settimane, per bocca del presidente Gianni Infantino, la Fifa aveva promesso l’aprirsi di una propria indagine e di fare chiarezza sul caso doping alla luce dell’imminente Coppa del mondo. Il primo esempio di un atteggiamento da definirsi “lento” nella migliore delle ipotesi, e “negligente” nella peggiore.
Ai malpensanti, qui, si sostituiscono i fatti. Da quella promessa, la Fifa ha impiegato nove mesi per contattare gli autori del report della Wada e più di un anno prima di incontrare Grigory Rodchenokov nel gennaio 2018. Lo scorso maggio la Fifa ha infine concluso che non sussistono prove sufficienti per affermare che calciatori russi avessero fatto uso di sostanze dopanti. Negli stessi giorni, tuttavia, usciva un nuovo servizio del canale Ard in cui veniva messa in dubbio la scrupolosità dei controlli della Fifa e in cui venivano fornite nuove dichiarazioni di Rodchenkov: «Era il mio capo e io eseguivo i suoi ordini», ha detto riferendosi a Vitaly Mutko. Uno di questi era particolarmente importante: «Una volta ho ricevuto l’ordine da Mutko che in nessun modo i calciatori russi dovevano risultare positivi ai test».
Ma il fatto che la Coppa del mondo si sia disputata sull’ex suolo sovietico non è il risultato della sola macchina organizzativa russa. La Fifa ha prima assegnato il torneo e poi difeso a oltranza il Paese ospitante, nonostante scandali e violazioni. Quello della Fifa è stato un beneplacito cieco alle ingerenze esterne e alle violazioni interne della Russia, sintomo di una accondiscendenza che – lo speravano un po’ tutti – prometteva di sparire con il nuovo corso inaugurato da Gianni Infantino nel febbraio 2016.
La storia recente di Vitaly Mutko è particolarmente illuminante per comprendere la sudditanza dell’apparato Fifa nei confronti della Russia. All’indomani del Fifagate, quando le indagini americana e svizzera avevano spazzato via i vertici della Fifa e portato alle dimissioni dell’eterno Blatter, il neo eletto presidente Gianni Infantino aveva giurato un nuovo corso. Basta corruzione, niente più voti di scambio né bustarelle e favori. In queste lodevoli intenzioni credeva fermamente Miguel Maduro. Giudice portoghese con un passato dietro le cattedre di Yale, nel maggio 2016 gli fu offerto di dirigere il comitato di governance indipendente della Fifa. «Sembrava davvero motivato», ha dichiarato Maduro alla Espn in riferimento a Infantino, «e non ho avuto la benché minima impressione che fosse una persona corrotta». L’ufficio di cui era a capo avrebbe contribuito alla riabilitazione della Fifa agli occhi del mondo. Ma Maduro si trovò ben presto in mezzo a due fuochi: Gianni Infantino da una parte, Vitaly Mutko dall’altra.
«Infantino non ha nessuna intenzione di creare guai alla Russia, se uno si dimostra critico nei loro confronti rischia davvero la carriera»Ministro dello sport, presidente della federazione calcistica russa e a capo del comitato organizzatore delle Olimpiadi di Sochi, Mutko era il braccio operativo di Putin per lo sport. Allo stesso tempo mirava alla rielezione all’interno del comitato della Fifa. Maduro, in merito, aveva però idee chiare e posizioni inflessibili. Mutko non doveva essere rieletto per due motivi: in quanto vice primo ministro in Russia, la sua posizione violava il codice di condotta della Fifa che proibisce a politici in carica di diventare membri del comitato; inoltre, l’accusa di aver diretto personalmente il doping di Stato era davvero troppo. Maduro fu licenziato un anno dopo la sua nomina, provvedimento che lui stesso ha giudicato come un tentativo di non indispettire Putin e il Cremlino. Il canale tedesco Ard ha inoltre citato una fonte anonima all’interno della Fifa: «Infantino non ha nessuna intenzione di creare guai alla Russia, se uno si dimostra critico nei loro confronti rischia davvero la carriera». Nelle stesse settimane venne accompagnato alla porta anche Cornel Borbély, capo del comitato etico della Fifa il quale, tra le altre cose, guidava l’indagine interna sui legami tra Mutko e il caso doping. Poco dopo il licenziamento, tre membri del comitato di governance si licenziarono in solidarietà con Maduro. Uno di loro, Navi Pillay, giudice sudafricano ed ex alto commissario delle Nazioni unite per i diritti umani, ha dichiarato: «Ci chiedevamo sempre che cosa spingesse Infantino… Per trattarci così deve essere stato sottoposto a pressioni tremende». La strada verso i Mondiali in Russia era di nuovo in discesa.
Qualche testa però doveva rotolare. Lo scorso dicembre il Comitato olimpico internazionale ha escluso Mutko a vita da tutte le Olimpiadi per il ruolo ricoperto nello scandalo doping. A seguito di forti pressioni, soprattutto esterne, tre settimane dopo si è dimesso dal ruolo di responsabile del comitato organizzatore di Russia 2018. In quel frangente, la Fifa in un comunicato ha ringraziato Mutko «per il lavoro svolto finora nell’organizzazione dei Mondiali». Un piccolo sacrificio sull’altare russo. Un’ultima bacchettata è arrivata di nuovo dal Cio che ha escluso buona parte degli atleti russi dalle Olimpiadi invernali di PyeongChang lo scorso febbraio, consentendo però agli altri di gareggiare sotto la dicitura «Atleti olimpici di Russia». Mutko rimane presidente dell’associazione calcistica nazionale nonché vice primo ministro. Ancora oggi continua a respingere le accuse rivolte alla Russia e a lui stesso nel caso doping.
Ai tempi dell’Unione Sovietica, lo sport era considerato uno strumento politico potentissimo. Il Paese era una superpotenza non solo sportiva e primeggiare sui campi o sulle piste di atletica valeva ben più di una medaglia d’oro. E i sovietici erano i migliori. Dal 1952 hanno partecipato a nove Olimpiadi, arrivando primi nel medagliere in sei edizioni e secondi nelle rimanenti tre. La stessa supremazia la dimostravano nelle olimpiadi invernali: sette volte in cima al medagliere, due volte al secondo posto. Crollato il Muro, però, tutto si è azzerato. Da allora, la Russia non ha mai più raggiunto la cima del medagliere e ogni edizione terminava peggio della precedente. Il fondo è stato toccato a Vancouver 2010: undicesimi nella classifica generale con tre soli ori in tasca, uno in meno dell’Austria. Nelle parole di Mutko alla Espn: «I Giochi di Vancouver hanno rappresentato la distruzione dello sport russo, era la fine. Negli anni Duemila lo sport non ci interessava affatto, avevamo problemi di scorte di cibo, la guerra in Cecenia…semplicemente abbandonammo lo sport».
Pochi anni prima, era il 2007, Putin aveva però dato avvio a una restaurazione. Fu lui stesso ad avviare una strategia di lobby nel Cio per accaparrarsi le Olimpiadi 2014. La medesima pressione veniva avviata all’interno e all’esterno della Fifa per, meglio prima che poi, accaparrarsi i Mondiali. I primi tasselli di una strategia di rifondazione che contemplava non solo organizzare eventi sportivi di portata globale ma anche vincerli. Ecco spiegato il secondo tassello, quel sistema di doping di Stato che se non fosse stato smascherato avrebbe riconsegnato il medagliere di Sochi alla Russia e riportato la nazione ai fasti sportivi sovietici. E, infine, i Mondiali di ieri. Un piano perfetto. O quasi.
«Nonostante il clima particolarmente teso con l’Occidente», scrive il Corriere della Sera, «Putin chiude il Mondiale perfetto»; l’emittente UsaToday lo definisce «il migliore fino ad ora»; la Coppa del mondo «perfetta», ha detto il presidente francese Emmanuel Macron a Vladimir Putin; «la migliore di sempre», per il britannico Telegraph. Al prezzo di 12,8 miliardi di euro, di una testa rotolata e di una mezza squalifica alle Olimpiadi invernali, la Russia ha celebrato se stessa e riparte rinvigorita sul panorama internazionale. Un prezzo più che accettabile. Lo avrà certamente percepito Putin quando, durante la finale tra Francia e Croazia, ha fatto da padrone di casa a 14 tra capi di stato e di governo. Che il calcio non fosse soltanto uno sport è cosa ormai assodata. Business, anzitutto. Da un po’ di tempo, e ora più che mai, è anche politica. È un caso che Putin e Trump si incontrino il giorno dopo la fine dei Mondiali? Per fortuna degli appassionati di calcio ci hanno pensato la Fifa e Gianni Infantino a riportare tutti sulla terra. Alla vigilia della finale ha annunciato le date dei prossimi Mondiali. Si disputeranno dal 21 novembre al 18 dicembre 2022. In Qatar. Se anche qui vedete del losco, siete dei malpensanti.
Questo articolo è stato pubblicato su Rivista11 il 19 luglio 2018.
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