Stupratore, molestatore, aggressore sessuale, pedofilo. I profili degli aggressori sessuali sono tanti e molto diversi fra loro. C’è però un fattore che li accomuna e su cui la comunità scientifica internazionale è unanime: tutti negano, in toto o in parte, il reato commesso. Oppure ne minimizzano la gravità e le conseguenze sulla vittima. In Italia, i pochi dati disponibili confermano la tendenza globale. Il diniego (questo il termine scientifico) diventa inoltre un elemento centrale nelle aule dei nostri tribunali. In presenza di diniego prima e di condanna poi, il giudice solitamente sentenzia il massimo della pena. E se persiste durante la detenzione, le misure alternative sono altrettanto inflessibili. Niente sconti. Insomma, negare il fatto è considerato grave sia a livello sociale sia a livello giuridico e il motivo è semplice: le nostre istituzioni lo considerano come un indicatore di probabile ricaduta. C’è chi tuttavia non crede nell’equazione diniego uguale recidiva. «Dal punto di vista scientifico non regge più e sappiamo anche che la memoria della detenzione non è sufficiente a scongiurare il ripetersi del reato». Ad affermarlo è Georgia Zara, ricercatrice presso l’istituto di criminologia dell’università di Cambridge. Da quest’anno guida il progetto SORAT (Sex Offenders Risk Assessment and Treatment, ndr), uno studio mai condotto prima in Italia che ha lo scopo di esplorare il rapporto tra diniego e recidiva. I pochi dati italiani disponibili si devono a lei e al gruppo di ricerca che guida. E, seppur preliminari, sembrano sconfessare il modus operandi della giustizia penale italiana.
Come evitare che un sex offender ripeta la violenza?
La incontro a Torino nel suo ufficio del dipartimento dove dal 2013 insegna Psicologia criminologica e Risk assessment. Da una donna che ha passato due terzi della propria vita allo studio accademico e alla ricerca scientifica ci si aspetterebbe un aspetto severo, ma a spazzare via qualsiasi stereotipo sono un sorriso contagioso e un cappotto blu cielo: «Pensi che qualcuno mi ha anche fermata per strada chiedendomi dove l’avessi preso», mi confessa tra sorpresa e orgoglio. Nel capoluogo piemontese ci torna saltuariamente, per coniugare gli impegni di Cambridge e la ricerca sul campo che con il suo team svolge all’interno del carcere di Torino su un campione, al momento, di quasi 100 detenuti condannati per reati sessuali. Dal 2003, una domanda è al centro dei suoi studi: come intervenire per evitare che un aggressore sessuale ripeta la violenza una volta scontata la pena?
«Non criminalizziamo il diniego: analizziamolo»
«In Italia la valutazione del rischio non è prevista dal sistema della giustizia penale», afferma. La soluzione, secondo Zara, è spostare il baricentro dell’attenzione di quel tanto che basta per rendere più efficace la condanna. «Non criminalizziamo il diniego, bensì analizziamolo, capiamolo, e una volta fatto trattiamo il detenuto di conseguenza». La detenzione in quanto pena da espiare è comminata in modo meccanico, inefficace. «Nel trattare tutti i detenuti per crimini sessuali allo stesso modo compiamo un grave errore valutativo. Faccio due esempi: io, pedofilo, sostengo che toccare una bambina sia un modo per avviarla alla sessualità, non sto compiendo un crimine. Oppure: io, stupratore, credo che una volta che ho fatto sesso con una donna allora ho il diritto di rifarlo quando e come voglio, non commetto mica tutto ‘sto reato. Queste sono due forme ben diverse di diniego che non possono essere trattate nella stessa maniera», spiega Zara.
Da Cagliari a Cambridge passando per Torino
Quando guarda al passato si fa seria e la mente torna agli studi di Psicologia iniziati a Cagliari, sua città natale. «Lì conobbi il Professor Guglielmo Gulotta, insegnava Psicologia sociale e fin da subito mi colpì il modo che aveva di coniugare la scienza giuridica con quella psicologica». L’illuminazione non tardò ad arrivare. «Capii all’istante che avrei voluto dedicare la mia carriera a lavorare con persone che hanno commesso un reato e a capirne le motivazioni alla base». Dopo la laurea arriva l’opportunità di studiare in Inghilterra grazie a due borse di studio. «Nel college dove stavo ero l’unica italiana, per un anno intero sono andata a dormire con le cuffie sulle orecchie e la radio sintonizzata sulla Bbc c così da assorbire la pronuncia inglese il prima possibile, non volevo che fossi identificata come ‘la classica straniera che non parla bene l’inglese», ammette con un sorriso. La stessa determinazione le è valsa il soprannome di «anglosarda» dai colleghi dell’università di Torino.
Capire l’umanità dentro la violenza
Da quando è sbarcata oltremanica, 23 anni fa, in Sardegna ci torna raramente. «Il mio mantra è capire l’umanità dietro la violenza», spiega Zara. «Quando il sex offender nega lo fa spesso per sopravvivenza, è una forma di auto-protezione, in alcuni casi per tentare di evitare la possibile condanna ma soprattutto per timore dello stigma sociale o per scongiurare il distacco dalla propria famiglia». Sono affermazioni ma suonano come certezze. Tutte acquisite sia in ambito accademico sia sul campo. Incluso quello giuridico. Dal 2008 al 2016 è stata infatti giudice onorario del Tribunale di sorveglianza di Torino, l’istituto che monitora l’esecuzione della pena. «Ho svolto la valutazione del rischio su oltre 4 mila casi e intervistato centinaia di persone e posso dire che il diniego sembra drammaticamente più presente nei sex offender rispetto ad altri criminali e che la detenzione, seppur sacrosanta, non può essere l’unico strumento riabilitativo».
Come si facilita il reintegro degli aggressori sessuali?
Il progetto SORAT (in partenariato con la casa circondariale ‘Lorusso e Cutugno’, il Dipartimento di psicologia di Torino, il Dipartimento di salute mentale dell’Asl di Torino, il Gruppo Abele e il Centro Studi Agire Violento e finanziato dalla Compagnia di San Paolo) è partito da poco più di un anno ma i risultati parziali, se confermati, potrebbero portare a una mini rivoluzione su come la Giustizia somministra la pena a chi commette reati sessuali. Ma non solo. «Vogliamo inoltre mostrare come una trattamento terapeutico e riabilitativo mirato per ciascun detenuto possa contribuire a una forte riduzione della ricaduta», precisa Zara. Ne va della sicurezza di tutti, delle vittime anzitutto. Al momento in Italia non esistono modalità con cui monitorare o facilitare il reintegro degli aggressori sessuali nella società una volta usciti dal carcere, come succede per esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Lo scoglio da aggirare non è da poco, significa intensificare il dialogo tra Giustizia e Scienza. «Hanno due velocità molto diverse per fattori storici e culturali e nonostante collaborino già si può fare di meglio», afferma.
Cosa vuol dire fare ricerca in Italia
La dottoressa ha le idee chiare anche su cosa voglia dire fare ricerca nel nostro Paese. Nell’esporle appoggia gli avambracci sulla scrivania e si sporge in avanti, offrendo sia il bastone sia la carota: «L’Italia ha grandi potenzialità e competenze ma il problema è che non emergono a causa di un sistema ultra burocratico e male organizzato». Cita poi la questione della mancanza di fondi. «Essere un accademico in Italia è un mestiere per ricchi, la cultura in Italia non paga perché il docente o il ricercatore con le più alte qualifiche percepisce uno stipendio che non ti toglie le preoccupazioni. In Gran Bretagna invece sei in grado di costruirti una buona vita, indipendentemente dal tuo background». Il suo se l’è lasciato alle spalle nei primi Anni ’90 quando i genitori, il padre dipendente pubblico e la madre casalinga, le consigliavano di studiare Giurisprudenza ma lei ha fatto di testa sua. «Hanno capito e alla fine mi hanno sempre sostenuto negli studi». Anche quando decise di volare in Inghilterra. «Dovevo rimanerci un anno solo, invece guardi, ci ho vissuto per 12 e adesso ci sono appena tornata». Da un’isola all’altra.
Questo articolo è stato pubblicato su LetteraDonna l’11 dicembre 2018.
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