di Lorenzo Bagnoli e Lorenzo Bodrero
Radar, jeep, quad, droni, siste-mi di controllo elettronici: una volta erano mezzi destinati all’esercito. Dal 2008, però, l’alta tecnologia militare è stata riconvertita a scopo civile, in Europa come negli Stati Uniti. Il mercato europeo, scrive la ong Transnational Institute nel suo rapporto Border Wars, oggi vale oltre 15 miliardi di euro e nel 2022 arriverà a 29. A spingere questo processo è stata la Commissione europea, per cui le frontiere sono un duplice fronte di battaglia: da un lato, la paura dell’immigrazione irregolare e dei terroristi che potrebbero infiltrarsi; dall’altro, i morti in mare, una macchia che mette in forte discussione i princìpi per cui è nata l’Unione Europea. Così le frontiere sono diventate una priorità. Con l’interesse dell’Europa, sono arrivati pure i soldi: dal 2004 l’Ue ha erogato fondi destinati alle frontiere per un totale di 4,5 miliardi di euro, da spendere entro il 2020.
La parola d’ordine che ritorna nei più importanti documenti della Commissione, è “tecnologia avanzata”. Il sogno è quello di poter controllare tutti i confini europei, interni ed esterni, da un monitor. Per realizzarlo, vengono finanziate ricerche per prodotti tecnologici che poi possono essere acquistati da agenzie europee e Stati nazionali. Allo stesso tempo, questo diventa un modo per sostenere le aziende ad alto valore tecnologico, in competizione con il resto del mondo. Quelle che si sono portate a casa più finanziamenti dai programmi di ricerca europei sono Thales (31,5 milioni di euro), Leonardo-Finmeccanica (28,6), Airbus (25,9) e Indra (12,2).
“La sorveglianza alle macchine, l’azione per gli uomini”, sintetizza una delle società che ha sviluppato il progetto Closeye, uno dei 20 con cui Bruxelles sta cercando di sviluppare il suo “sistema dei sistemi”, il database più complesso mai immaginato per la gestione dei confini. Si chiama Eurosur (European Border Surveillance System). Lanciato nel 2013, si presenta come una specie di Google Maps molto avanzato, su più livelli. Il “sistema dei sistemi”, in sostanza, è una piattaforma che pesca informazioni da altri database di agenzie europee e nazionali, con lo scopo di condividerle in tempo reale con i colleghi che si trovano nel resto d’Europa. Almeno in parte: c’è infatti un livello nazionale dove i dati restano “segreti”. La condivisione, secondo quanto prevede il regolamento di Eurosur, è solo volontaria: al momento il database conta oltre 160mila eventi registrati. Da questi dati, l’agenzia europea Frontex estrapola analisi di intelligence con le quali, in teoria, prevedere con anticipo i flussi migratori nel Mediterraneo.
Accolto con grande entusiasmo dall’allora Commissaria europea per gli Affari interni Cecilia Malmstrom, nel primo anno ha avuto un budget da 244 milioni di euro. A questi vanno aggiunti 144 milioni di euro per il mantenimento, erogati da Frontex. Se consideriamo ulteriori 204 milioni di euro destinati alla ricerca e allo sviluppo di progetti per la sicurezza nel Mediterraneo, arriviamo a poco meno di 600 milioni stanziati dall’Europa per fronteggiare la crisi dei migranti. Alle spalle di questa imponente mole di denaro c’è la Eos, European organisation for Security, la principale lobby europea della sicurezza europea, che fin dal 2009 preme per la creazione di un gruppo di lavoro pubblico-privato da chiamarsi “EU Border check task force”, per “un approccio armonizzato ai controlli di frontiera” e per preparare l’introduzione di un “progetto di sistema di controllo delle frontiere”.
Eccolo, il “sistema dei sistemi”. L’obiettivo è stato raggiunto nel 2014 con il gruppo Pasag, tavolo di esperti a cui si rivolge la Commissione europea per consulenze in materia di sicurezza e protezione. I gruppi di esperti, a norma, dovrebbero rappresentare società civile, industria, professionisti. Fino allo scorso dicembre, Pasag, su 30 membri ne aveva dieci provenienti dall’industria privata, tra cui Luigi Rebuffi, presidente di Eos e direttore degli affari europei per Thales, gigante francese della sicurezza. Ora il gruppo è ridotto a 19 membri, di cui quattro provenienti dal mondo dell’industria privata. Non solo dalle aziende, ma anche da lobby come la Ecso, gruppo che rappresenta gli interessi pubblici e privati della cybersicurezza, di cui fa parte lo stesso Rebuffi. Pochissimi, invece, a dare voce alle forze dell’ordine e alle agenzie delle dogane, i primi a dover usufruire nella pratica dei risultati dei pro- getti finanziati. Eos si giustifica così: “I contributi europei alla sicurezza sono 10 volte inferiori a quelli che prendono gli americani”. Come a dire che il trend dell’armamento delle frontiere è mondiale, non solo europeo. Inconfutabile, così come il fatto che il mercato stia acquistando sempre più spazio, anche se gli effetti sul piano della sicurezza sono ancora lontani a vedersi.
Secondo il regolamento Eu-rosur del 2012, entro la fine dello scorso anno la Commissione europea avrebbe dovuto valutare la piattaforma. Il report ancora non è stato realizzato: “Verrà reso pubblico nel 2017”, spiegano da Bruxelles. Un dato è certo: Eurosur era stato presentato come lo strumento per evitare nuove tragedie in mare, ma il 2016 è stato l’anno record per numero di morti: 5.079.
Questa strategia “digitale” potrebbe anche funzionare, a condizione che si realizzi la seconda metà del piano di intervento sul Mediterraneo: la collaborazione dei Paesi di origine dei migranti. Anche qui, però, sono più i dubbi delle certezze. L’Italia è in prima fila nel tessere relazioni con la sponda sud del Mediterraneo. L’ultima in ordine di tempo è la firma di un ennesimo accordo, dopo quelli del 2008 e 2012, tra Roma e Tripoli che prevede ancora la realizzazione di “un sistema di controllo delle frontiere terrestri libiche”. La spesa, 300 milioni di euro, come già stabilito nel 2008, dovevano dividersela Italia e Unione Europea, mentre il progetto l’avrebbe realizzato Selex (gruppo Leonardo-Finmeccanica). All’epoca, il tutto si arenò con la fine di Gheddafi. Anche oggi, con il governo di transizione libico che controlla a malapena un quarto del territorio, le prospettive di successo non sono rosee.
Poco più a ovest, di Europa se ne vede ancora meno. L’Italia ha accordi bilaterali con la Tunisia dal 2004 e da allora l’obiettivo è ridurre il flusso migratorio verso le nostre coste. “L’approccio del governo tunisino alla cooperazione con l’Italia è commerciale: si fa una shopping list di quello che serve come equipaggiamento, poi la cooperazione può cominciare”, spiega Habib Sayed, consulente del gruppo interministeriale del governo che combatte contro il radicamento del terrorismo in Tunisia.
Il minimarket Italia ha fornito motori fuoribordo, ambulanze, navi, quad, moto, equipaggiamento, oltre a 200 milioni di euro appena deliberati e i 165 milioni da spendere entro il 2020 da un nuovo Piano di Sviluppo siglato dal Ministro Angelino Alfano. Iniziative importanti, che però si scontrano con la realtà. Dell’Unione Europea, a Tunisi, non c’è traccia. La Guardia Costiera Europea, spiega una dipendente di una ong che fa formazione a polizia e società civile tunisina, “non ha uffici, ma ci sono tunisini della Marina che sembrano parlare per conto di Frontex”. “Non mi faccia parlare –dice un dipendente dell’Ambasciata italiana che preferisce non essere citato – ci sono tanti tavoli con l’Europa ma il rischio che poi producano poco esiste”.
Un esempio già c’è: si chiama Seahorse Mediterraneo. Una versione più piccola di Eurosur, costata 4,5 milioni di euro, che avrebbe dovuto aggiungere dati e informazioni al “sistema dei sistemi” provenienti dagli Stati del sud del Mediterraneo. Tunisia, Algeria ed Egitto però si sono sfilati e le buone intenzioni sulla collaborazione sono sfumate. La cooperazione tra sponde del Mediterraneo può funzionare solo se le priorità sono le stesse. L’impressione è che, come scrive la Corte dei Conti europea in un documento del 2016, “alcune iniziative siano state intraprese per il solo beneficio dell’Unione Europea. Ne è un esempio il tentativo fallito di coinvolgere nel progetto Seahorse Mediterraneo i Paesi nord africani”. Ancor più grave è l’accusa lanciata dal Transnational Institute alla Commissione Europea e alle società produttrici di armamenti: “Le aziende che causano la crisi (dei rifugiati, ndr) sono le stesse che ne beneficiano”. L’industria della sicurezza ringrazia.
Questo articolo è parte del progetto Security for Sale a cui per l’Italia lavora il centro di giornalismo d’inchiesta IRPI insieme ad un consorzio di giornalisti provenienti da dieci Paesi europei. È reso possibile dal giornale olandese De Correspondent con il contributo di Journalismfund.eu
No comments so far.
Be first to leave comment below.