Sono le 18:30 di una sera di fine estate a Palermo. Il 23 settembre Rosalia Pipitone, per tutti Lia, si trova all’interno di un negozio di sanitari in Via Papa Sergio. E’ lì a fare acquisti per il piccolo Alessio, il suo primo e unico figlio avuto quattro anni prima ma che non avrebbe mai più rivisto.
Lia è una delle 1.120 vittime innocenti di mafia che lacerano come un profondo taglio oltre cento anni di storia del nostro Paese. Donne, ragazzi, bambini, pensionati che per sbaglio o per precisa volontà delle cosche finiscono trucidati per questioni ben più grandi di loro. E chissà di quanti altri non se ne ha memoria, finiti nell’oblio di un archivio polveroso in un remoto paese di provincia o covato e tenuto nascosto dai famigliari come un dolore troppo grande da rendere pubblico.
L’onore che uccide
Lia, giovanissima, incontra suo marito a scuola. Pazienza se non in chiesa, come da tradizione avrebbe voluto il padre. Il matrimonio è lampo, così come lo è la fuga dei coniugi dal quartiere Arenella di Palermo. Sta stretto ai due il contesto rionale del capoluogo siciliano, ambiscono a qualcosa di più. Ci fanno però ben presto ritorno per mancanza di lavoro.
L’ancora di salvezza è il padre di lei. Antonino Pipitone non è un uomo qualunque. E’ il cognato di Tommaso Cannella, uno dei consiglieri di Bernardo Provenzano. Uomini che da lì a poco formeranno lo ’squadrone della morte’, il braccio armato dei Corleonesi, il più sanguinario nella storia di Cosa Nostra. Cosa vuoi che sia trovare una sistemazione per la figlia e suo marito?
Lia ha vent’anni, mette su casa e un anno dopo dà alla luce suo figlio. Intanto i picciotti di cui Antonino fa parte si espandono. A tal punto che dieci anni dopo partiranno dai loro fucili i proiettili che nell’82 uccidono il segretario del Pci, Pio La Torre, e che poi massacrano il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela e un uomo della scorta. Una potenza di fuoco ed economica senza precedenti, tanto che tra i loro ranghi fu il giudice Giovanni Falcone nel ’91 ad arrestare il primo vero riciclatore professionista di denaro mai pizzicato prima. E’ l’elite mafiosa, spietata e all’avanguardia.
Lia si accinge a pagare e a uscire dal negozio quando all’improvviso fanno irruzione due individui armati. Il bottino della rapina è irrisorio, 250 mila lire. Mentre escono sparano alle gambe di Lia. E’ ferita ma viva. Trascorrono pochi secondi e uno dei due rientra nel negozio, preme il grilletto tre volte ancora al grido “Mi ha riconosciuto!”, questa volta mirando senza possibilità di sbagliare al petto della ragazza 25enne. Lia muore all’istante. Erano anni tormentati per lei, tra il peso di un padre mafioso e un matrimonio che iniziava a perdere la passione dei primi anni. Poche sere prima Lia era arrivata al punto di confidare al padre di voler andare a vivere da sola, lontano dal marito. Per don Antonio quelle parole furono un attacco diretto al proprio “onore”, si alzò e sputò in faccia a sua figlia. Nel quartiere si mormorava, le malelingue dicevano che Lia frequentasse un uomo al di fuori del matrimonio. Nella Palermo degli anni ’70 sono pettegolezzi che pesano come un macigno. Tanto più per una famiglia “d’onore” quale quella di don Antonino.
Ma tant’é, Lia ormai è morta, nessuno potrà più infangare la reputazione della famiglia Pipitone, l’onore è salvo. Il giorno successivo, disperato per la morte della sua amata, il compagno di Lia si getta dal balcone di casa dopo aver lasciato un biglietto con su scritto “Mi uccido per amore”. Il processo per stabilire la morte di Lia si concentrerà sull’omicidio a scopo di rapina e finirà in un nulla di fatto, con gli esecutori ad oggi ancora ignoti.
E’ soltanto nel 2003, esattamente vent’anni dopo, che la verità viene a galla. Antonino Pipitone viene arrestato con l’accusa di essere il mandante dell’uccisione di sua figlia. Il provvedimento arriva a seguito delle dichiarazioni di due pentiti, Francesco Marino Mannoia e Francesco Onorato. Mannoia sosteneva che Pipitone avesse ordinato l’uccisione della propria figlia “perché tradiva il marito” e aggiunse che per eseguirla “venne simulata una rapina”. In seguito, lo stesso Giovanni Brusca, l’esecutore materiale della strage di Capaci, ne corroborò la tesi: “E’ stata uccisa in base alle regole di Cosa Nostra. Lei non ne faceva parte, ma il padre sì”, confermando poi che Antonino Pipitone era stato il mandante. I pezzi del puzzle rimasto incompiuto per vent’anni si ricompongono. Si scopre anche che il compagno di Lia non si suicidò. Lo gettarono nel vuoto due individui, probabilmente gli stessi che il giorno prima avevano freddato Lia, non prima di averlo costretto a scrivere quel breve messaggio. Una messinscena, orchestrata da don Antonino, tanto quanto quella della rapina nel negozio di sanitari.
La stagione delle stragi e le mafie dormienti
La lunga lista delle vittime innocenti di mafia, messa insieme dal centro di giornalismo di inchiesta IRPI e resa possibile grazie all’incessante opera di sensibilizzazione del blog www.vittimemafia.it e dell’associazione Libera, è purtroppo un work in progress la cui fine è ancora lontana.
Il calo di omicidi, e di conseguenza del numero di vittime innocenti, registrato a partire dagli anni 2000 è una falsa buona notizia. La mafia uccide meno ma la sua penetrazione nelle istituzioni rimane profonda, come testimoniano i 130 consigli comunali sciolti per infiltrazione mafiosa negli ultimi quindici anni. Con la fine della stagione delle stragi, che dal 1980 al 1994 ha mietuto 241 vittime innocenti, Cosa Nostra ha gradualmente ceduto lo scettro di mafia più influente e cruenta alla ’ndrangheta e alla Camorra. Quella siciliana è, tra le organizzazioni mafiose, la più presente nel corso del tempo, responsabile della morte di 526 innocenti dal 1861 al 2014.
Le ragioni di una simile mattanza da parte della mafia siciliana vanno ricercate, secondo l’ex presidente della commissione antimafia Francesco Forgione, “in un radicamento più profondo e più antico di Cosa Nostra nei territori di competenza” e nel fatto che “con la guerra allo Stato messa in atto con la stagione delle stragi, quella siciliana è stata la mafia più sanguinaria di tutte le altri presenti in Italia”.
Francesco Marcone era direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia. Lo freddarono sulle scale di casa il 31 marzo 1995 perché troppo zelante nel denunciare truffe e illeciti all’interno del dipartimento del ministero delle finanze che dirigeva. A trovare il suo corpo senza vita fu la figlia Daniela, oggi responsabile del settore Memoria e vicepresidente dell’associazione Libera. Allora studentessa, aveva 25 anni quando di ritorno dall’università in cui studiava la vita le cambiò in un attimo. La ferocia della mafia siciliana la spiega così: “Cosa Nostra è una delle più antiche organizzazioni mafiose che ha esplicato la sua attività affaristica e di espansione attraverso la violenza colpendo chiunque si opponesse ai suoi scopi”.
Ad un progressivo calo della ferocia della Cupola dal finire degli anni ’90 in avanti corrisponde un’improvvisa ascesa di ’ndrangheta e Camorra. Daniela Marcone lo sa bene: “Cosa Nostra da un certo anno in poi ha utilizzato l’arma dell’omicidio in modo più sporadico, mentre le altre organizzazioni l’hanno utilizzata per aumentare il loro potere su un territorio di competenza, anche in virtù di un metodo emulativo”. La mafia calabrese ha vissuto una crescita senza precedenti, iniziata 40 anni fa e sancita dal pressoché monopolio del traffico di cocaina dal Sud America all’Europa. E il potere si controlla con la violenza. Si spiegano così le 217 vittime innocenti uccise dalla ’ndrangheta dal 1970 a oggi.
L’emergere della ’ndrangheta quale mafia predominante “va letta nel contrasto che la magistratura italiana ha messo in atto contro Cosa Nostra negli anni ’80 e ’90, a partire cioè dalla creazione del pool antimafia”, afferma Forgione.
Donne e bambini, la strage degli innocenti
La mafia non esita a uccidere donne e bambini, la morte è l’unica legge che conta. Sono 124 le donne innocenti uccise da mani mafiose in Italia e 105 i minorenni, tra i quali bambini a volte di pochi anni o mesi di vita. Numeri raccapriccianti che certificano una volta per tutte che quello del mafioso ’gentiluomo’ è un mito riservato alle pellicole cinematografiche. “Sono dati molto significativi”, continua Forgione, “che provano quanto il codice d’onore delle mafie sia una menzogna”.
La barbarie dei padrini non conosce pietà. Quando si tratta di eliminare ragazze la cui colpa è quella di aver frequentato la persona sbagliata o di sacrificare la vita di un neonato, i picciotti non guardano in faccia a nessuno. Cosa Nostra, ’ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita. Nessuna ne è immune. Lo dicono i fatti.
Durante il maxiprocesso di Palermo, che inflisse uno dei primi duri colpi a Cosa Nostra, alcuni boss alla sbarra lessero un comunicato in cui prendevano le distanze dall’omicidio di Claudio Domino, un ragazzo di 11 anni ucciso il 7 ottobre 1986 con un colpo di pistola alla nuca. Ma il fango indelebile con cui la mafia si macchia le proprie vesti è anche dei giorni nostri. Domenico ha due anni e mezzo, il 17 marzo del 2014 si trova in macchina insieme alla mamma e al compagno di lei. Il bersaglio dei sicari salentini è l’uomo, pregiudicato, che in quell’istante tiene in braccio il piccolo. Muoiono tutti e tre, crivellati da decine di colpi. La Sacra Corona non si fa scrupoli neanche per questioni di gelosia. Nel maggio del 1999 viene ritrovato il corpicino di Angelica Pirtoli, due anni, scomparsa insieme alla madre otto anni prima. Il ritrovamento avviene grazie alle dichiarazioni di uno degli assassini che aveva ucciso la donna per volere della moglie di un boss, gelosa per la relazione che in passato aveva intrattenuto con il marito. Angelica, uccisa insieme alla madre, viene raggiunta da due colpi di pistola al petto e il corpo senza vita nascosto in una cisterna.
“Per molti anni anche io ho creduto al cosiddetto codice d’onore”, ha commentato Daniela Marcone, “poi ho analizzato i dati e sono giunta alla conclusione che la criminalità mafiosa non risparmia nessuno, comprese donne e bambini. Pensiamo anche a tutti quei casi in cui questi ultimi si sono trovati ad essere vittime casuali ma che in realtà la casualità era una probabilità molto alta se si mette a punto un ordigno che può distruggere un intero isolato di abitazioni o si spara nel mucchio”.
Altre esecuzioni, invece, sono studiate a tavolino. E’ ancora Cosa Nostra ad avallare prima il rapimento e poi l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, ’colpevole’ a quindici anni di essere il figlio di uno dei più importanti pentiti di mafia. Fu Giovanni Brusca a sentenziarne la morte nel marzo del 1996, contraddicendo così quella dichiarazione fatta dai suoi compari nell’aula bunker del tribunale di Palermo: fece strangolare Giuseppe e poi sciogliere nell’acido nitrico. Un’altra giovanissima vittima, un’altro corpo da far sparire. Letteralmente. Perché le mafie necessitano di consenso sul territorio che i corpi senza vita di un ragazzo o di una bimba rischiano di minare.
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