Stipendi e trasferimenti: da Ben Green a Neymar, i costi fuori controllo del calcio
DataJournalism 13/11/2018 0
Le cifre sono, per semplicità, espresse in sterline britanniche così come riportato nei dati disponibili su Wikipedia.
È un sistema fuori controllo quello che, privo di parametri oggettivi, stabilisce il prezzo del cartellino dei calciatori professionisti. Una corsa al rialzo che ogni anno indigna addetti ai lavori e non per cifre che, in epoca di crisi e di incertezze lavorative, sono ormai fuori controllo.
Osservando i dati sui trasferimenti record, si nota come dagli anni 90 a oggi la crescita è vertiginosa. Gli appassionati di calcio ricorderanno il trasferimento di Cristiano Ronaldo dal Manchester United al Real Madrid nel 2009: furono necessari 80 milioni di sterline per portare l’asse portoghese in Spagna. Così come era accaduto per il record precedente (Kakà, dal Milan al Real Madrid per 56 milioni), allora era impensabile immaginare un trasferimento più oneroso. E invece no, bastarono quattro anni perché il vecchio record venisse polverizzato (Gareth Bale, dal Tottenham di nuovo ai Blancos per 86 milioni di sterline).
Le aste al rialzo insensato hanno origini antiche. Bisogna andare indietro di oltre cento anni per osservare una “corsa al record” che sembra non arrestarsi mai. Come ovvio che sia, tutto è nato là dove il calcio ha emesso i primi vagiti e dove poco impiegò a diventare il business lucroso che oggi tutti conosciamo: l’Inghilterra.
L’anno successivo toccherà al Vicenza infrangere il precedente record per strappare un giovanissimo Paolo Rossi alla Juventus. Nei decenni successivi l’Italia continuerà a farla da padrone. Vale la pena ricordare i trasferimenti di Diego Armando Maradona, capace di stabilire il record due volte consecutivamente nella strada che dal Boca Juniors lo porta al Napoli passando per il Barcellona tra il 1982 e il 1984, e quello di Ronaldo per il quale la spunterà l’Inter nel 1997. I campioni argentino e brasiliano sono gli unici, insieme al britannico David Jack negli anni ’20, a infrangere il record per ben due volte.
Gli anni ’90 sono quelli che hanno registrato il maggior numero di record (9 su 48). Ad aprire e chiudere l’ultimo decennio di supremazia italiana sono, rispettivamente, Roberto Baggio (dalla Fiorentina alla Juventus nel 1990 per otto milioni di sterline) e Hernan Crespo (dal Parma alla Lazio nel 2000 per 35,5 milioni). L’inizio del nuovo millennio è stato invece un assolo del Real Madrid, capace di inanellare cinque primati consecutivi tra il 2000 e il 2013 quando acquistò i diritti alle prestazioni di calciatori del calibro di Luis Figo, Zinedine Zidane, Kakà, Cristiano Ronaldo e Gareth Bale per dare vita a quello poi soprannominato il team dei Galacticos.
Con la recente cessione di Neymar dal Barcellona al Paris Saint German per 198 milioni di sterline è difficile immaginare un nuovo record in tempi brevi. Fino alla prossima finestra di calcio mercato.
Read moreIl 2016 è stato l’annus horribilis per la libertà di stampa nel mondo. Lo afferma l’organizzazione no-profit statunitense Freedom House nel suo Press Freedom Index. L’ultima edizione pubblicata pochi mesi fa delinea un quadro generale tutt’altro che rassicurante, con “un incremento senza precedenti del numero di minacce rivolte a giornalisti e giornali nelle principali democrazie, e con una tendenza all’inasprimento dei regimi autoritari nel controllo dei media anche al di fuori dei confini nazionali”.
E l’Italia, come vedremo, non è tra i casi più virtuosi.
Il Press Freedom Index esce con cadenza annuale dal 1980. Degli
ultimi 13 anni, il 2016 è quello che ha registrato il punteggio peggiore
a livello globale. Solo il 13% dei paesi godono di una stampa “libera”.
Che tradotto significa uno scenario mediatico in cui la copertura delle
notizie politiche è robusta, l’incolumità dei giornalisti è garantita,
le intromissioni dello Stato sono minime e la stampa non è soggetta a
onerose pressioni legali e economiche.
Ben il 45% della popolazione vive invece in paesi dove la stampa è classificata come “non libera”. In Europa, quelli che evidenziano il calo più preoccupante nella libertà di stampa sono Polonia e Ungheria. Una tendenza al peggio che va di pari passo con le politiche nazionali di entrambi i paesi. Qui lo Stato “condiziona la copertura delle notizie minando i media tradizionali, esercitando un’influenza verso gli emittenti pubblici e promuovendo la credibilità di quelli compiacenti”.
I paesi monitorati da Freedom House sono 199 e a ciascuno viene assegnato un punteggio da 0 (migliore) a 100 (peggiore) sulla base di venti quesiti divisi in tre categorie.
La prima, giuridica, esamina leggi e regolamenti che influenzano il modo di fare giornalismo e il loro livello di utilizzo pratico nel favorire o limitare l’operato dei giornalisti. Quella politica valuta il grado di influenza degli organismi pubblici, il livello di indipendenza delle emittenti pubbliche e private, la censura e l’auto-censura, e i tipi di intimidazione ricevuti da giornalisti e giornali. Infine, la categoria economica esamina la distribuzione degli editori e la loro concentrazione, la trasparenza, i costi e gli impedimenti per il sorgere di nuove emittenti, l’impatto della corruzione sui contenuti e il modo in cui la situazione economica del paese impatta lo sviluppo delle testate.
Il report dedica una parentesi anche a Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti “ha ripetutamente ridicolizzato i giornalisti apostrofandoli come traditori corrotti dell’interesse nazionale e nemici del popolo”, scrive Freedom House. Sebbene il primo emendamento della Costituzione americana funga da scudo a qualsivoglia attacco, i ripetuti e feroci commenti di Trump “preoccupano poiché offrono indirettamente un assist ad altri leader politici a perseguitare i media come parte di una più ampia strategia autoritaria”.
Anche in Italia c’è poco da sorridere. Con il punteggio di 31 nel 2016, il nostro paese ha una stampa “parzialmente libera” al pari di Polonia, Ungheria, Romania e Croazia – sebbene questi ultimi abbiano un punteggio leggermente inferiore. Dal 2003 l’Italia vive una flessione nella libertà di stampa da cui sembra non essersi ancora ripresa. E’ curioso notare come i cali più marcati sembrano essere avvenuti durante i governi Berlusconi.
L’elenco dei punti critici è lungo. Anzitutto, Freedom House sottolinea la questione della distribuzione dei media. Nonostante la legge proibisca a un singolo soggetto di controllare più del 20% delle emittenti televisive e radiofoniche, tanto meno di fatturare oltre il 20% del comparto media nazionale, sappiamo bene che la fusione di proprietà e le proprietà condivise sono una realtà. Altro neo è rappresentato dalla concentrazione degli emittenti, con oltre il 90% del fatturato televisivo e il 40% del fatturato dell’intera industria in mano a Sky Italia, Mediaset e Rai (fonte AgCom). Anche la sicurezza dei giornalisti nello svolgere la professione è certamente un problema. Nel 2016, 62 giornalisti hanno ricevuto minacce verbali o fisiche (fonte Ossigeno per l’Informazione). Il punteggio dell’Italia nella categoria politica è di 10 su 40.
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