A Oriana A Oriana
Poi capì. Allora si alzò, fece un passo verso l’uomo col cappello con la visiera. Gli passò il fiore e mostrò il collo, come... A Oriana

Con lo scoccare del mese di novembre i cittadini canadesi – così come molti altri in diversi paesi – indossano sul petto un piccolo fiore di colore rosso. Dato l’elevato numero di fiori necessari a colorire milioni di petti qualcuno ben pensò di produrli di plastica questi fiori. Fu così che il nostro giovane incappò in centinaia di questi.

Inizialmente il ragazzo pensò ad una sorta di “distintivo” per chi lavora nell’amministrazione canadese. Ipotesi scartata al primo fiore ammirato sulla camicia di un tale a cui, data la sua non proprio affascinante combinazione di scarpe slacciate, jeans strappati e mozzicone di sigaretta in mano difficilmente sarebbe stato offerto una lvoro da impiegato statale.

Una congregazione di qualche tipo dunque? No, il numero di persone che indossavano il fiore rosso suggeriva un avvenimento più massiccio. Un evento senza differenze di razza, età, stato sociale, impiego. Almeno una dozzina di individui differenti per ciascuna categoria avevano di rosso macchiato il petto.

«Pazienza», pensò il ragazzo, «è probabile che il motivo sfugga a chi non è canadese».

Come bene si addice ad una giornata di novembre, all’improvviso il tempo decise di barricare tutti in casa – o a chi non avesse tale fortuna, al riparo sotto qualche tetto improvvisato per strada – con una pioggia e un vento che avrebbe affogato le ambizioni turistiche del più ostinato turista giapponese.

«E ora? che faccio tutto il giorno?» pensò il ragazzo alzatosi presto, il quale date le sue origini e abitudini mediterranee mai avrebbe pensato di includere un ombrello nella sua valigia.

Nella speranza che il tempo diventasse più clemente col passare dei minuti, decise di fare colazione nel pub al piano terra del motel in cui risiedeva. I lettori non sanno che, nonostante il buon stato generale del pub stesso e la più che soddisfacente selezione di piatti in offerta, il nostro ragazzo non aveva nessuna intenzione di trascorrervi un minuto in più del tempo necessario a viziarsi con una abbondante colazione. Si da il caso infatti che i clienti del pub, ad una perlustrazione precedente, fossero per la maggior parte anziani, o individui verso la definizione di anziani, oppure persone il cui sguardo perso nel vuoto il giovane aveva avuto modo di notare in numerosi altri frequentatori della zona in cui pub e motel risiedevano.

Terminata la colazione, il ragazzo come sua abitudine sentì il sacrosanto e irresistibile diritto di lasciarsi andare al piacere di fumare una meritata – tale è l’amore che lega i due – sigaretta. Ahimé, data la politica anti fumo vigente in Canada allora e il tempo non proprio caraibico, si trovò costretto ad usufruire di una piccola stanza – dai muri di vetro e dotata di bar vogliate notare, dunque piu’ che accogliente – allestita all’interno del locale per accogliere chi come lui reputa il vizio di una sigaretta un diritto inalienabile. Inutile dirlo, i presenti in tale stanza non erano il benché minimo differenti da coloro seduti all’esterno della stessa.

«Poco male», penso’, «perlomeno io e loro una cosa in comune ce l’abbiamo». Futile aggiungere che tale condivisione fosse da molte autorità descritta come un vizio che uccide.

Tre tavoli alti circondati da sgabelli in legno, un bancone lungo tutto il perimetro della stanza, un minuscolo condizionatore, diversi bicchieri di birra – nonostante l’ora antimeridiana – posaceneri, una manciata di persone e una densa coltre di fumo. Tali erano gli ornamenti da cui il giovane era circondato.

«May I join you at your table, sir?».

Il giovane si voltò di scatto per capire da chi provenisse la richiesta. Un uomo di circa 60 anni dai piacevoli connotati, di corporatura robusta e altezza media. Pelle ruvida e vissuta. Barba e baffi tenuti in modo decoroso e arricchiti da un grigio non vecchio bensì maturo. Mani robuste. Ma soprattutto un sorriso sincero e cordiale. Un cappello a visiera nascondeva un paio di occhi a prima vista stanchi ma con una vivacità e un piglio da fare invidia a qualunque persona di 30 o 40 anni più giovane. Furono queste le sensazioni causate da quest’uomo nella frazione di secondo in cui il ragazzo rispose,

«Sure».

Con una semplicità e naturalezza che appartengono solo a colui che conosce alla perfezione sè stesso, l’ambiente che lo circonda e le persone che ha di fronte, l’uomo attaccò discorso con due o tre individui, della sua eta’ o quasi, a lui prima estranei. Il Canada era il loro argomento di discussione, o perlomeno quello con cui cominciarono. Presto si spostarono sulle armi. Ciascuno fece presente quale fra i numerosi fucili a disposizione dell’esercito canadese, in chissà quali anni, preferissero. Difetti e pregi di numerose armi dai nomi bi-lettere. Il ragazzo recepì solo Magnum e MG-qualcosa. Quasi come per scusarsi e riparare ad un argomento che trattava oggetti con cui l’esercito canadese usava ucidere in battaglia, i tre uomini si rifugiarono nell’argomento ‘Storia canadese’. La conoscenza di tale materia, vale la pena sottolineare, era nota ai tre uomini tanto quanto i pregi e difetti di un Kalashnikov. Il giovane tuttavia non potè fare a meno di notare quella genuinità che, ahimè, appartiene solo a persone che hanno superato una certa età. Ognuno di essi acoltava con pazienza e interesse il proprio interlocutore, senza mai interrompere. Nessuno di loro mostrava cenni di stentata superiorità o disinteresse. Pura e semplice conversazione: qualche disaccordo, qualche battuta, e il ragazzo in un istante si reputò fortunato a esserne testimone.

«Oh ci son cosi’ tante domande che vorrei chiedere!», pensò.

Finalmente il giovane si decise a entrare a far parte di questo vivace gruppetto.

«May I ask you a question, sir?».

E fu così che il nostro ragazzo scoprì come era nata Vancouver; chi per primo si insediò in quella particolare area che così piacevolmente caratterizza un meraviglioso angolo del nord America; i rapporti con gli Stati Uniti (il commento «Ahh, gli USA non sono nessuno!» di uno dei tre su tale argomento provocò una risata generale e il ragazzo pensò a quanto si augurasse che fosse davvero così); l’Indipendenza; la particolare e singolare multi-etnicità del popolo canadese; in quale corpo militare e quando i tre avevano prestato servizio; a come ora si trovassero nel quartiere considerato il piu’ povero del Nord America e altro, molto altro.

Ad un tratto il terzo dei tre uomini presenti catturò gli occhi del giovane. Una macchia rossa sulla giacca. Un fiore. Un fiore rosso, di plastica, attaccato con uno spillo sul petto all’altezza del cuore. Il nostro giovane si chiese come avesse fatto a non notarlo prima.

«Forse quel piccolo condizionatore d’aria non funziona benissimo…», riflettè, quasi a giustificare con la presenza di fumo nella stanza quella disattenzione ai particolari che lo aveva sempre perseguitato.

Sorrise e disse fra sè: «Glielo vuoi chiedere cos’è quel fiore o ti vuoi portare ‘sto mistero in Europa??».

Nell’esatto istante in cui il ragazzo terminò di formulare la domanda all’uomo col fiore gli altri due uomini interruppero la loro privata conversazione. Si voltarono verso il giovanotto con un movimento sincronizzato, i boccali di birra semivuoti a mezz’aria. Il primo, che sedeva al tavolo del ragazzo e che per primo gli aveva rivolto la parola, sollevò la visiera del cappello e lo fissò. Il povero ragazzo ebbe l’impressione di essere di fronte ad un genitore il cui figlio di quattro anni chiede lumi riguardo l’utilizzo di un preservativo. Un silenzio imbarazzante irruppe nella stanzetta e fu come se diede uno schiaffetto sulla nuca del giovane.

«Scusi… ma non ne ho la minima idea…», balbettò il ragazzo.

«E’ un simbolo», rispose telegraficamente l’uomo. A questo il ragazzo credette di esserci già arrivato di suo.

Poi, un’illuminazione.

«Ma chiaro! mica gli ho detto che sono straniero! questi credono che sia canadese!», pensò.

Per sua fortuna i tre accolsero con piacere le origini mediterranee del giovane. Tanto che egli volle sapere cosa pensassero dei suoi concittadini e quale fosse – se mai ce ne fosse stato – l’apporto dei suoi compaesani alla fortuna e presente stato della nazione canadese.

«Però… niente male», sbibigliò il ragazzo alla fine. «E’ proprio vero che solo i francesi ci odiano dunque». A cui seguì una piacevole contastazione da parte dei tre uomini secondo la quale tutti odiano i francesi, canadesi inclusi!

A questo punto, risollevato il livello di stima nei suoi confronti, il giovane non ebbe timore nell’interrogare i tre uomini più in dettaglio riguardo le origini e il significato del fiore rosso.

Fu così che il giovane fece conoscenza del cosidetto Poppy Flower. Appartiene alla famiglia dei papaveri. E’ un fiore piuttosto comune in numerose parti del globo. Tuttavia è piu’ caratteristico nella regione delle Flanders, in Belgio. Qui sorge un cimitero in cui riposano numerosi soldati alleati caduti durante la Prima guerra mondiale. Nella maggior parte dei paesi del Commonwealth – dunque Canada incluso – il Poppy Flower, numeroso nelle aree adiacenti il cimitero, è diventato simbolo dei caduti durante il Primo conflitto. In seguito è stato adottato da numerosi altri paesi a simboleggiarne i caduti di tutte le guerre. Oggi, il Giorno del Ricordo cade l’11 di Novembre.

Fu questa la descrizione del fiore che il giovane ragazzo estrapolò dalle parole ben pesate e quasi solenni dei tre uomini. E naturalmente notò come nel frattempo la voce del suo compagno di tavolo si era fatta un più grave e gli occhi più lucidi. In meno di un istante il giovane comprese quanto importante fosse l’11 di Novembre nella memoria dei cittadini canadesi. Per diversi minuti provò una certa vergogna per non aver mai sentito parlare del Poppy Flower. Vergogna mista a quel disagio un po sempre presente nella sua coscienza ogni qualvolta si era trovato coinvolto in conversazioni riguardanti la Seconda guerra mondiale con persone straniere: certo, il suo Paese aveva terminato il conflitto dalla parte degli Alleati, ma chissà a quanti caduti in modo miserabile il suo Paese, i suoi stessi consanguigni, avevano contribuito, per una infinita catena di eventi a lui a malapena percettibile, e fatto in modo che un giorno quel fiore che su così tanti cappotti aveva visto in quei giorni sarebbe diventato il simbolo di una Memoria.

Condivise i suoi pensieri con l’uomo che gli stava di fronte. E non potè fare a meno di esternarli fissando il tavolo, in basso, senza guardarlo negli occhi. Gli altri due ascoltavano in silenzio, una mano a reggere il boccale l’altra sul ginocchio. Sul volto dell’uomo, in un attimo, si formò un’espressione quasi paterna.

«Ah! Sei giovane, sir!», esclamò l’uomo rompendo il silenzio. «Inoltre, pensa a tutti quei tuoi paesani che nell’oscurità combatterono quel regime di .. quello lì… Musilini!».

«Mussolini».

«Mussolini, bravo! Il tuo Paese è stato fra quelli che ha sfornato il maggior numero di ribelli, I tell ya!».

In quel momento una singola immagine si formò nella mente del giovane. La foto di Oriana Fallaci, un primo piano del suo volto, due occhi profondi, il mento appoggiato sulla mano che reggeva una sigaretta, un sorriso – o forse un ghigno – appena percettibile. L’aveva vista una sola volta qualche anno prima sul retro del primo libro della Fallaci che lesse, anzi divorò, ancora oggi il suo preferito. La signora Fallaci era venuta a mancare poche settimane prima di quel piovoso mattino canadese. Più volte aveva letto che la signora Fallaci da bambina faceva la messaggera, di armi, lettere o quant’altro, per i Partigiani nella Firenze occupata dai tedeschi.

Poi, per la seconda volta quella sera – o era mattina? sì era ancora mattina – il ragazzo fu colto interamente di sorpresa. Uno dei tre uomini, quello che indossava il Poppy Flower, il meno loquace fra i tre e che più lo aveva impressionato con il peso delle sue parole, si era allontanato per un attimo. Al suo ritorno allungò la mano verso il tavolo di fronte al ragazzo. Il giovane ebbe l’impressione che i gesti che portarono la mano dell’uomo verso di lui si muovessero al rallentatore. Tra sè e una birra offerta da uno dei tre giaceva ora un Poppy Flower. Il ragazzo, le labbra impercettibilmente separate, alzò lo sguardo a incontrare quello dell’uomo. L’uomo non disse nulla. Rispose agli occhi del giovanotto con un cenno del capo e tornò al suo posto. Il ragazzo fissò il fiore per qualche istante, quasi in attesa che gli parlasse.

«Non posso… davvero… io..», mugugnò, con gli occhi ancora sul fiore.

Poi capì. Allora si alzò, fece un passo verso l’uomo col cappello con la visiera. Gli passò il fiore e mostrò il collo, come fanno gli innamorati a richiesta di un bacio proprio lì. L’uomo in silenzio attaccò la spilla con il fiore sulla felpa del giovane. E’ un bene che il ragazzo avesse lo sguardo rivolto verso il basso perchè questa volta gli occhi lucidi erano i suoi. Tornò al suo posto e per molti istanti non disse una parola.

La conversazione riprese i toni amichevoli di pochi minuti prima. Il ragazzo riflettè e non potè che pensare di avere avuto la sensazione di trovarsi al centro del mondo per qualche minuto. Poi si riprese da tale torpore e riacquistò quella lucidità mentale di cui così tanto era sempre andato orgoglioso.

«In una stanza per soli fumatori, in un motel a 40 dollari per notte, nel quartiere tra i più poveri del Nord America….», riflettè per un attimo su tutti i luoghi comuni o stereotipi che gli potessero venire in mente riguardo la natura del suo alloggio,

«…che pirla!», si disse sorridendo.

Prima di congedarsi promise all’uomo col cappello che avrebbe condiviso con i suoi più cari amici il significato del Poppy Flower. Augurò ai tre una buona giornata, li ringraziò, strinse loro la mano e si allontanò con la certezza che, contrariamente a quanto pensasse poche ore prima, poteva ora condividere con i tre uomini un tesoro infinitamente più prezioso di una banale passione per una sigaretta fumata in compagnia.

Intanto, di turisti giapponesi non se ne vedeva neanche l’ombra fuori dall’albergo. Pioveva ancora che Dio la mandava.

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